giovedì 11 febbraio 2016

I Big Data tra marketing, privacy e controllo sociale


di Giovanni Abbatangelo

Barry Wellman e Lee Rainie, nel loro best-seller “Networked. Il nuovo sistema operativo sociale” (2012) si riferiscono alla nostra era come il frutto di una “tripla rivoluzione” generata dalla diffusione dei network sociali, di internet e delle connessioni in mobilità. È indubbio che le nostre vite siano state notevolmente modificate da questo repentino sviluppo tecnologico: siamo tutti più connessi, spesso always on (S. Baron), i nostri dispositivi elettronici diventano sempre più indispensabili e allo stesso tempo più pervasivi, siamo tutti più consci della nostra natura di prosumer, ossia consumatori e allo stesso tempo produttori di informazioni.
 
La questione dei dati è al giorno d’oggi di grande attualità: se fino a pochi decenni fa un gigabyte sembrava una grande quantità di informazioni, oggi Internet “contiene” un numero incommensurabile di GB di dati, nell'ordine dei cinquemila miliardi, e il trend non sembra destinato a diminuire. Ogni giorno produciamo quantità eccezionali di sms, mail, telefonate, post, immagini, video, chat e documenti che vengono inviati tramite reti sia cablate che wireless per mezzo di dispositivi fissi e mobili capaci di registrare le tracce delle nostre operazioni. Anche i motori di ricerca immagazzinano i nostri “movimenti” online, mentre i sistemi di pagamento automatizzati (caselli autostradali, POS, ecc.) conservano le tracce dei nostri acquisti. E non dimentichiamo i social network, i quali registrano le nostre connessioni con amici, colleghi, conoscenti, e i sistemi GPS che monitorano in tempo reale tutti i nostri spostamenti fisici.


Tenendo a mente questo scenario, non ci si può stupire del fatto che questa mole imponente di dati, se messi assieme, sono in grado di fornire una grande quantità di informazioni sull’individuo che li ha prodotti più o meno consapevolmente. Si tratta dei cosiddetti Big Data, in sostanza “grandi dati”, chiamati così per la loro dimensione e complessità, che permettono di classificare e schedare gli individui per scopi di marketing, profilazione e controllo.

Quali sono gli utilizzi dei Big Data? Corriamo dei rischi dovuti alla loro pervasività?

L’utilizzo principale dei Big Data è quello legato alle attività di marketing online. Ogni “traccia” lasciata da un utente su un servizio o strumento digitale può essere oggetto di profilazione mediante operazioni di controllo e archiviazione. Grazie ai social media si può infatti analizzare il traffico di pagine e profili Facebook, Twitter, Linkedin per misurare la reputazione di un’azienda in rete (Sentiment Analysis) oppure fornire pubblicità mirata in base alle preferenze dell’utente e per tante altre implicazioni utili alle aziende. Ciò permette loro di soddisfare al meglio i propri clienti ed individuare nuove nicchie di mercato, generando profitti dal cosiddetto data mining. Un esempio pratico è il meccanismo EdgeRank di Facebook, l’algoritmo che regola la rilevanza e il peso dei singoli contenuti e decide quali post mostrare all’utente, selezionando quelli per lui più attraenti e quali invece oscurare, ma anche gli algoritmi che permettono ai motori di ricerca di interagire con gli applicativi che utilizziamo con più frequenza, proponendoci annunci pubblicitari mirati in base alle nostre attività precedenti.

Il mercato del Big Data Analytics è dunque un settore in forte espansione, con ottime aspettative di crescita anche in un contesto non sempre reattivo come quello italiano. Secondo una ricerca dell'Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence promossa dalla School of Management del Politecnico di Milano, nel 2015 il mercato degli Analytics in Italia è cresciuto del 14%, raggiungendo un valore complessivo di 790 milioni di euro, composto per l’84% da Business Intelligence e per il 16% da Big Data. I settori di impiego sono i più disparati: l’Osservatorio sottolinea come l’uso degli Analytics sia diffuso nelle banche (29%) e nell’industria (21%), seguiti da TelCo e media (14%), pubblica amministrazione e sanità (9%), GDO (8%), utility (6%), assicurazioni (5%). Il settore aziendale che sfrutta maggiormente le soluzioni di Analytics si conferma quello del marketing e vendite (77%), seguito da amministrazione, finanza e controllo (76%), sistemi informativi (60%), acquisti (55%), produzione (44%), supply chain (43%), risorse umane (31%), ricerca e sviluppo (20%). Al contempo, sempre più organizzazioni stanno introducendo nuovi ruoli aziendali legate all’analisi dei dati, come il Chief data officer, presente oggi nel 26% delle organizzazioni e il Data scientist, presente nel 30%, anche se nella maggior parte dei casi queste figure non sono non ancora codificate formalmente. Diminuiscono anche le aziende che non hanno intenzione di inserire queste figure (rispettivamente il 60% e 56%).


Ma esiste un lato più preoccupante dell’utilizzo dei Big Data che va oltre le semplici attività di marketing e organizzazione aziendale. Le domande da porci sono: chi può accedere ai dati che ci riguardano? E soprattutto, cosa se ne fa? La nostra sicurezza è a rischio? Esiste la possibilità di sfruttare i Big Data ai fini di un più stringente controllo sociale?
 
I Big Data, per via della loro natura, non possono essere gestiti dagli esseri umani, pertanto le operazioni di raccolta e analisi devono essere delegate alle macchine. Un’altra differenza rispetto al passato è data dal fatto che la raccolta tradizionale dei dati è soggetta all’approvazione degli individui che forniscono le informazioni, mentre per la maggior parte dei Big Data, come ad esempio quelli derivanti dai social media, il soggetto non è perfettamente consapevole del materiale che sta fornendo e di quali saranno i suoi utilizzi. Il rischio maggiore è quello della profilazione, attività da sempre esistita, ma che si sta trasformando in qualcosa di sempre più individualizzato e pervasivo, servendosi di tecniche in grado di elaborare raffinate identità digitali con modalità e rapidità fino ad oggi impensabili.

Come spiega Antonello Soro, Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, “l’integrazione tecnologica e la connettività permanente ampliano a dismisura la possibilità di raccogliere, archiviare, elaborare informazioni e consentono, superando i limiti di tempo e di spazio, di aggregare un’enorme quantità di dati a costi contenuti. Siamo perennemente connessi e siamo disposti, spesso inconsapevolmente, a consegnare informazioni in cambio di vantaggi o comodità. Quelle cedute però non sono soltanto le nostre generalità, ma la radiografia completa di interessi, opinioni, consumi, spostamenti, in sostanza pezzi della nostra vita che come tessere di un mosaico si scompongono e ricompongono per formare il nostro profilo identitario”. Le informazioni legate alla nostra persona diventano dunque ogni giorno più corpose e, molto spesso, vengono conservate su server di cui non conosciamo neppure la collocazione. Pare evidente che diventa quasi impossibile per l’utente ricomporre e controllare appieno la propria “identità online”, distribuita tra centinaia o migliaia di byte sparsi in ogni angolo della rete.

L’attenzione, dunque, si sposta dalla “persona fisica” alla “persona elettronica”, costituita dai dati personali presenti online. Molto spesso la certezza che questi dati non vengano utilizzati a fini di controllo e sorveglianza non può essere data per scontata. Come riporta Morozov in L’ingenuità della rete, “il passaggio al digitale ha risolto molti problemi legati alla sorveglianza in età analogica. La sorveglianza digitale è più pratica ed economica: lo spazio di memoria è infinito, l’attrezzatura costa pochissimo, […] non c’è bisogno di leggere ogni parola di un’e-mail per identificare le parti più interessanti; si può semplicemente fare una ricerca per parole chiave”. I nostri computer e smartphone, le carte di credito e navigatori satellitari, i chip NFC ed anche i braccialetti per il fitness, si stanno trasformando in piccoli panopticon capaci di emorizzare e inviare a dei server informazioni in tempo reale, senza la possibilità da parte dell’utente di avere il controllo e l’accesso ai dati. Accesso che al contrario è relativamente semplice da ottenere per i gestori dei database e per i governi. Lo scandalo Datagate sviluppatosi a seguito delle rive­la­zioni di Edward Sno­w­den ha evidenziato la scarsa sicurezza dei dati archiviati nei giganteschi server americani e ha mostrato al mondo la crescente capacità delle aziende digitali e delle organizzazioni governative come l’NSA di analizzare comportamenti individuali e collettivi elaborando miliardi di informazioni. 


L’intreccio pericoloso (Soro) che può realizzarsi ogni giorno tra aziende digitali e spionaggio è preoccupante: i dati collezionati per finalità commerciali diventano sempre più interessanti anche per fini di sicurezza, a cui sono ormai irreversibilmente intrecciati. Le grandi aziende che dispongono del controllo dei Big Data (Microsoft, Google, Amazon, Apple, ecc.), oltre al potere di predire e indirizzare le scelte dell’individuo tramite la pubblicità mirata, assumono inesorabilmente anche un potere politico e di controllo su ogni aspetto della vita del cittadino dovuto alla collaborazione sempre meno occulta con i governi. Siamo ancora lontani dall’avverarsi del mondo ipercontrollato descritto da George Orwell in 1984, ma cosa accadrà quando l’intelligence potrà accedere in tempo reale e senza autorizzazioni preventive alle informazioni del nostro “doppio” online in possesso delle aziende? In un futuro in cui ogni nostro gesto potrebbe finire in un database e nel quale esporsi alla sorveglianza diventerà quasi un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante (già oggi la più grande preoccupazione della maggioranza degli utenti dei social network è di “non essere notati da nessuno”), il rapporto tra Big Data, sicurezza dei dati e sorveglianza dovrà essere gestito con molta attenzione. Esistono già delle tecnologie che permettono di “aggirare” la sorveglianza online e mantenere l’anonimato, come le reti TOR e le conversazioni criptate di Telegram, ma finché l’utente comune preferirà barattare la propria privacy e la sicurezza delle proprie informazioni con la gratuità e la personalizzazione dei servizi e sarà diffusa la logica del “non mi importa se mi controllano tanto non ho nulla da nascondere”, le aziende e i governi potranno tranquillamente continuare ad accumulare informazioni sui cittadini e utilizzarle per i propri scopi sia economici che politici senza che si sviluppi mai una vera opposizione che limiti il loro potere.

I Big Data, dunque, possono generare grandi opportunità ma anche enormi rischi: è necessario dare nuovo impulso alle tecnologie a sostegno della privacy, occorre un aggiornamento della legislazione in materia di Internet e trasparenza online (in Italia sono stati fatti alcuni passi in avanti con l’approvazione, il 3 novembre 2015, della nuova Carta dei Diritti di Internet), per far sì che l’accesso alle conoscenze dei Big Data diventi un patrimonio comune. Allo stato attuale, la maggior parte dei Big Data sono tutt’altro che “open”, restando una prerogativa delle web corporation, degli operatori di telecomunicazione e delle intelligence. Più in generale, è necessaria una vera e propria democratizzazione dei Big Data, ossia una restituzione al singolo della possibilità di accedere, modificare ed eliminare le informazioni raccolte su di lui in maniera semplice e trasparente.
I principi di base che potrebbero regolare questo “new deal” dei dati personali, secondo Fosca Giannotti, sono:

  • Self-awareness: l’utente ha pieno controllo e consapevolezza dei propri dati personali e della conoscenza che può essere estratta da questi. Quindi una evoluzione da “consenso informato” a “consapevolezza”;
  • Data liberation: la possibilità di fare dei propri dati ciò che vogliamo, ad esempio ritirarli da un qualunque operatore. (data portability); 
  • Oblivo: il diritto di richiedere che i dati vengano dimenticati; 
  • Public good: il diritto di avere accesso alla conoscenza collettiva come bene comune.
Ciò comporta la necessità di iniziare a ragionare su cosa significhi vivere in un mondo in cui si è costantemente osservati e tracciati e quali conseguenze economiche, politiche e morali questo sistema stia generando. 


Approfondimenti

Morozov E., L' ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice Edizioni, Torino, 2011

Rainie L., Wellman B., Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, Guerini, Milano, 2012

Giannotti F., Big Data e Social Mining: i dati, a saperli ascoltare, raccontano storie, in http://www.sobigdata.eu/?q=news/news/big-data-e-social-mining-i-dati-saperli-ascoltare-raccontano-storie

Dionisio L., Quando il social network diventa controllo sociale e corporativismo, in http://www.vorrei.org/persone/10038-quando-il-social-network-diventa-controllo-sociale-e-corporativismo.html

Big Data: in Italia mercato degli analytics in crescita, vale 790 milioni, in http://www.techeconomy.it/2015/11/26/big-data-in-italia-mercato-degli-analytics-in-crescita-vale-790-milioni/

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